Il satiro danzante

Statua in bronzo (altezza cm 79)

A dare il benvenuto al visitatore, all’avvio del percorso, è la figura del satiro danzante, riproduzione dell’opera che ornava l’impluvium della casa del Fauno dell’antica Pompei, il cui originale è oggi in esposizione presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

È realizzata in bronzo con l’antico metodo della fusione a cera persa.
La statua, realizzata interamente a mano in modo artigianale, rappresenta una figura maschile nuda, barbuta, con la testa rovesciata all’indietro e lo sguardo rivolto al cielo, chioma fluente a ciocche abbondanti, in atto di accennare, in punta di piedi, un passo di danza. Elementi quali le corna di caprone poste sul capo e la presenza della coda suggeriscono che si tratti di un Fauno, o meglio di un Satiro in preda a ebbrezza bacchica o un’estasi religiosa.
Da un punto di vista tecnico, magistrale è la resa della muscolatura, estremamente sinuosa; la raffinatezza dell’esecuzione fa supporre che l’opera sia attribuibile a un centro di produzione ellenistico, verosimilmente alessandrino.

Dipinto di Salvatore Fiume

Olio (cm 76 x 63, 1975)

A metà degli anni Settanta la celebre rivista “La Domenica del Corriere” annuncia una iniziativa che avrebbe anticipato un importante filone dei decenni successivi, all’insegna dell’abbinamento tra vino e arte.
Nel fascicolo 50 del 9 dicembre 1976 la redazione presenta sei “Vini d’Autore”, segnalando di aver selezionato sei tra i migliori vini d’Italia e di averne “affidato l’interpretazione a grandi pittori: così sono nate le splendide etichette che potete ammirare in questo servizio…”.
Una delle sei opere è dedicata al Taurasi di casa Mastroberardino, e viene così descritta: “Questa libera donna vendemmiatrice di Salvatore Fiume che troneggia disinvolta su un somaro sembra una dea barbara, ha qualcosa di mitologico, com’è appunto il vino che rappresenta, il Taurasi di Atripalda, vino ellenico che risale ai tempi della Magna Grecia e che ha conservato una piccolissima area di produzione nell’entroterra avellinese. Sono poche viti vecchie e quasi archeologiche sopravvissute all’abbandono delle campagne.”
Salvatore Fiume (1915-1997), di origine siciliana, ricorda il Taurasi “come un sogno d’infanzia, un vino sacro che si stappava in famiglia solo nelle grandi occasioni”.
Quel dipinto, dopo l’edizione del Taurasi della vendemmia 1972, fu utilizzato come simbolo di alcune edizioni speciali in tiratura limitata e in grandi formati, come le riserve del Taurasi in 3 litri della vendemmia 1973 e della leggendaria 1977.

Il tondo di Raffaele De Rosa

Olio su tela (cm 120 x 120)

L’artista livornese, prima di dar corso alla preparazione della cupola posta nel primo incrocio del labirinto delle grotte di casa Mastroberardino, realizzò per la famiglia Mastroberardino una prova d’autore, olio su tela, in cui pone le principali figure che comporranno il corteo nuziale di Bacco e Arianna nell’opera definitiva del 1999.
Il tondo, per cura dei dettagli, cromatismi, plasticità delle figure appare tutt’altro che un bozzetto, piuttosto un’opera compiuta.

Bozzetto di Doina Botez

(cm 72 x 72)

In sala degustazione è esposto l’originale di un bozzetto dipinto dall’artista Doina Botez durante la gara per l’aggiudicazione dell’opera da collocare nella terza cupola delle grotte di affinamento. Nel quadro la pittrice studia le forme e gli spazi, testa accostamenti cromatici dai quali poi si discosterà in buona parte nella realizzazione finale, fornendo una chiave di lettura originale dei temi che svilupperà nel dipinto intitolato “Le nozze di Arianna”.

2 pale in legno di Maria Micozzi

Olio (2 elementi, ciascuno da cm 50×74)

In nicchie scavate nelle pareti della sala degustazione sono esposti due dipinti su pale in legno realizzati dall’artista Maria Micozzi durante le fasi di studio propedeutiche alla realizzazione del grande dipinto posto sotto la cupola centrale delle grotte di affinamento.
Vi sono riprodotte due figure composte dall’unione tra i corpi della donna e del toro, in diverse fogge, ad anticipare il tema che viene poi sviluppato nel dipinto principale, ovvero la fertilità nella congiunzione tra la grazia del primo e la potenza del secondo.
Di tali due opere l’artista realizzò anche bassorilievi che furono utilizzati per la realizzazione di stampi per la produzione di contenitori in vetro cavo destinati all’affinamento di un vino di gran pregio, denominato Naturalis Historia.

“Italo Calvino. Le città invisibili.” di Raffaele De Rosa

Olio su tela (cm 79 x 140, 1994)

Un gioco infinito di incastri che non può e non deve concludersi, un mosaico di trame geometriche che dà forma a labirinti che continuamente si ripetono dando vita ad un universo visionario di luoghi e personaggi che caratterizza tutta l’opera di Raffaele De Rosa.
L’opera rientra nella trilogia lucchese dell’artista, intitolata “Ho interpretato Calvino ed Eco per raccontarvi una favola mia”.
Ne Le città invisibili Calvino dice: “La città è l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Riesce facile a molti accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Le città sono anche sogni. Tutto l’immaginabile può essere sognato, ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure un suo rovescio o una paura. Le città sono costruite da desideri e paure anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli e ogni cosa ne nasconde un’altra. È giusto interrogarci su cos’è, su cosa dovrebbe essere la città per noi. E se la megalopoli non significhi proprio la fine della città o del suo contrario”.